Elsa Fornero ha perfettamente ragione: non esiste alcun diritto al lavoro. Questo tipo di diritti, come quello alla salute o alla felicità, appartengono alle astrazioni della Modernità che nulla hanno a che fare con la vita reale. Sono diritti impossibili perché nessuno, foss'anche Domineddio, può garantirli. Esiste, quando c'è, la salute, non un suo diritto. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto. Così è inutile sancire il diritto al lavoro se in una società il lavoro non c'è. Ciò che in una società moderna possiamo pretendere è un'altra cosa: l'assicurazione, da parte della collettività, di una vita dignitosa anche per chi il lavoro non ce l'ha e non lo può trovare.
L'articolo I della Costituzione afferma solennemente: “L'Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Questo articolo è espressione
delle culture liberiste e marxiste che, assieme a quella cattolica (che
peraltro del lavoro ha una concezione molto diversa) hanno contribuito a
redigere la nostra Costituzione. Il lavoro diventa infatti un valore solo
con la Rivoluzione industriale di cui queste culture, prettamente
economiciste, sono figlie. Per Marx il lavoro è “l'essenza del valore”, per
i liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il
famoso “plusvalore”.
In epoca preindustriale il lavoro non è un valore. Tanto che è nobile chi
non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta. Il resto è
vita. Non che artigiani e contadini non amassero il proprio mestiere (che è
qualcosa di diverso dal “lavoro” tanto che c'è chi dubita che in epoca
preindustriale esistesse il concetto stesso di lavoro come noi modernamente
lo intendiamo – R. Kurz, “La fine della politica e l'apoteosi del denaro”),
certamente lo amavano di più di un ragazzo dei call-center, di un impiegato,
di un operaio che, a differenza del contadino e dell'artigiano, fanno un
lavoro spersonalizzato e parcellizzato, ma non erano disposti a
sacrificargli più di quanto è necessario al fabbisogno essenziale. Perché il
vero valore, per quel mondo, era il Tempo. Il Tempo presente, da vivere “qui
e ora” e non con l'ansia della “partita doppia” del mercante che disegna
ipotetiche strategie sul futuro.
Questa disposizione psicologica verso il lavoro era determinata dal fatto
che in epoca preindustriale, come ho già avuto modo di scrivere, non
esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, artigiano o
contadino che fosse, viveva sul suo e del suo. E non doveva andare a pietire
un'occupazione qualsiasi da quella bestia moderna chiamata imprenditore.
“L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. In realtà, come
ogni Paese industrializzato, è fondata sulla schiavitù. Perché siamo tutti,
o quasi, come scriveva Nietzsche, degli “schiavi salariati”. A differenza
dell'artigiano e del contadino la nostra vita, la nostra stessa
sopravvivenza, non dipende più da noi, ma dalla volontà e dagli interessi
altrui. Il Primo Maggio noi celebriamo, senza rendercene nemmeno più conto,
la Festa della nostra schiavitù.
C'è da aggiungere che noi moderni abbiamo utilizzato nel peggiore dei modi
le straordinarie tecnologie che pur proprio noi abbiamo creato. Oggi le
macchine potrebbero lavorare per noi. Ma invece di utilizzarle per liberarci
da questa schiavitù, costringiamo gli uomini, sostituiti dalle macchine, a
cercare altri lavori, più infimi e disumani e sempre che li trovino. Ecco
perché nasce il “diritto al lavoro”. Paradossale perché in realtà è un
'diritto alla schiavitù'.
Fonte
- Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano.